Nel 2017 celebriamo il 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma con i quali i sei Paesi fondatori – Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda Lussemburgo – hanno istituito la Comunità Economica Europea, CEE, e la Comunità europea per l’Energia Atomica, Euratom, ponendo le basi dell’Unione Europea via via sempre più larga e inclusiva di nuovi Stati membri, fino al referendum sulla Brexit del giugno 2016 che ha mutilato l’Unione di un suo Stato membro, il Regno Unito.
La Fondazione A.J. Zaninoni, che nel suo Statuto prevede la promozione della cittadinanza europea intesa come consapevolezza di appartenere a una comunità fondata sui valori indivisibili e universali previsti dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, ha voluto segnare l’anniversario con una lezione di Donald Sassoon, professore emerito di Storia europea comparata presso la Queen Mary University di Londra.
Il titolo della lezione – “A 60 anni dai Trattati di Roma: L’Europa e i nostri sogni. Continuiamo a sognare?” – poteva apparire accattivante e pure indurre all’autocompiacimento: abbiamo sognato per anni l’Europa, nella speranza che il sogno di una sempre maggiore integrazione europea si avverasse. La domanda implicita era: dobbiamo continuare a sognare o affrontare il tema con maggior realismo?
La relazione del professor Sassoon non ha dato spazio a nessun compiacimento, al contrario ci ha costretti a fare i conti con la storia del continente europeo, fatto di Stati che per secoli si sono combattuti e che non sono mai riusciti a condividere percorsi e progetti, rimanendo divisi fino a che il dramma della Seconda Guerra Mondiale non ci ha costretti a riflettere e a cercare un progetto.
Anche la realtà di oggi, con la sua crisi sociale oltre che economica, il terrorismo, la pressione migratoria, i populismi dilaganti... ci ha messi di fronte alla realtà per quella che è: la costruzione europea è più difficile di quanto non ci è apparsa in questi sessant’anni. Speravamo in un processo lineare verso l’integrazione europea, ma non è stato così, perché a fronte di uno slancio dei sei Paesi fondatori che si sono “riconosciuti fra di loro” e hanno assunto l’impegno di “mai più guerre fra noi”, le ragioni per aderire alla UE sono state le più disparate per i diversi Paesi, dalla condivisione del successo economico al bisogno di segnare una discontinuità con il passato difficile delle dittature, al mantenimento di relazioni consolidate nel passato con Paesi divenuti membri...
Quale che sia la storia di questi sessant’anni, il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e delle cittadine europee è sotto gli occhi di tutti: mai un welfare così diffuso nei diversi Paesi e mai così a lungo in pace, eppure mai come oggi il concetto di costruzione europea è stato messo in discussione da chi sogna un ritorno agli Stati sovrani, a politiche protezioniste, a chiusure dei confini esterni della UE.
La direzione dovrebbe invece essere esattamente opposta: le difficoltà sono nate dall’esserci troppo a lungo dedicati alla dimensione economica del nostro stare insieme, attraverso la soppressione delle barriere intra-economiche e la creazione di un mercato unico a moneta unica. La fiscalità, principale strumento di protezione sociale, oltre che di decisione economica, la politica estera, le politiche di sicurezza e di difesa sono sempre invece rimaste saldamente nelle mani degli Stati-nazione, rendendo molto difficile la costruzione di una identità comune insieme alla cittadinanza europea.
Ma possiamo costruire una Unione Europea che includa, oltre che il mercato e la moneta unici, la dimensione sociale e politica, e quindi una identità europea?
Solo i sovranisti – per non dire gli ultranazionalisti – non aspirano a definirsi europei, anzi temono l’identità europea, ma la storia ci ha mostrato dove i nazionalismi hanno portato l’Europa.
Costruire l’identità europea significa avviare, in modo diverso da come abbiamo costruito le nostre singole identità nazionali (come ha spiegato il professor Sassoon), un processo in cui l’Europa volta le spalle al passato e guarda verso un avvenire di coesistenza pacifica tra i popoli che, mantenendo le loro lingue e gli aspetti “più gradevoli” della loro identità nazionale, ovvero le loro diversità culturali, sono disponibili a cedere sovranità dando maggiori poteri all’Unione. Per fare questo c’è bisogno del sostegno della maggioranza dei cittadini e delle cittadine europei ed è la difficoltà che stiamo vivendo in questi anni.
Ci manca la piena consapevolezza di dover condividere un destino comune: cancellare l’Unione sarebbe disastroso sia economicamente che socialmente. Se ne stanno accorgendo i negoziatori britannici al tavolo delle trattative sulla Brexit, dopo che il popolo britannico ha votato per l’uscita dalla Unione. Si parla ora di “soft Brexit”, di una proroga della unione doganale per evitare uno stop ai commerci, della giurisdizione “indiretta” della Corte europea e, per un certo periodo, continuerà la libera circolazione delle persone...
Speriamo che i Britannici ci ripensino, è sempre possibile cambiare rotta: il Trattato di Lisbona consente di ripensarci.
Pia Locatelli
Presidente della Fondazione