QUADERNO 5

La società italiana alla fine del 2004. Presentazione del rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese

Una società squilibrata. È questa la fotografia della società italiana alla fine del 2004, tracciata da Giuseppe De Rita nel presentare il Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese.

A partire dalla confutazione dello slogan “stiamo tutti impoverendo”, con cui parte della stampa nazionale ha sintetizzato il tema del Rapporto del 2003 che affermava “non stiamo impoverendo, però c’è una grande paura di impoverire”, De Rita è interessato a spiegare il rapporto tra impoverimento come dato quantitativo oggettivo e la percezione dell’ansia, della paura di impoverire sotto il profilo psicologico, indicando le condizioni che ne determinano soggettivamente il vissuto.

Una società che appare fortemente polarizzata tra chi “non ce la fa ad arri- vare al 27 del mese” e chi si può permettere di “passare il Natale a New York”, è dunque una società pesantemente squilibrata. Una società che, ancorché abbia assorbito lo spropositato aumento dei prezzi che ha accompagnato l’introduzione dell’euro – fatto unico in Europa –, è attraversata da significativi processi: l’aumento impressionante del lavoro sommerso (dai 3-4 milioni di lavoratori sommersi del 1971 ai circa 7 milioni di oggi) e l’aumento diffuso dell’evasione fiscale che ormai si attesta al 46% di reddito non dichiarato.

La conseguente enorme disponibilità di denaro contante si volge così al mercato immobiliare, soprattutto verso il bene “casa” (2 milioni di case vendute negli ultimi 2 anni), ma anche verso il mercato mobiliare, dove investimenti dell’ordine di 30mila miliardi hanno garantito rendimenti medi del 5% (fonte Banca d’Italia).

Ed è proprio questo rilevante processo di patrimonializzazione, afferma De Rita, il fattore squilibrante perché radicalizza le forti disomogeneità tra una società che vive sulla ricchezza patrimoniale e quella che vive sull’aumento dei redditi degli stipendi con il corollario che “lo stipendio non conta più come meccanismo di accrescimento del reddito”.

È dunque la categoria dei percettori di reddito fisso, il cosiddetto ceto medio, che non ha ad alcun titolo altre entrate, quella che, ancorché non sia sostanzialmente povera, ha tuttavia la sensazione della povertà, la paura di non farcela alla fine del mese.

Rispetto a questa inoppugnabile realtà (l’impoverimento reale o percepito), il dato riferito al Mezzogiorno, dove si comprano 300-400 mila case all’anno in contanti, si pone in evidente contrasto e sembra contraddire la logica dell’impoverimento. Se poi circa 1 milione di persone dichiara di vivere senza lavorare c’è allora il sospetto che siano tutt’altro che povere. Dunque la tesi dell’impoverimento è, secondo De Rita, una falsificazione della realtà. Tuttavia rimane il convincimento che il processo di patrimonializzazione segni un passaggio negativo di qualità della società italiana e, riferendosi alla metafora dei diversi talenti posseduti, De Rita conclude amaramente che se nella società a vincere è il patrimonio e non il reddito, vince la cultura del rampier e non la cultura del lavoratore.

Il quadro di riferimento si allarga alla critica del welfare e alla sua inadeguatezza a soddisfare una domanda nuova che De Rita, con qualche puntigliosità, considera liberata dalla connotazione di bisogno/desiderio che le conferiva il freudo-marxismo.

Tale critica è suggerita dall’analisi statistica della spesa delle famiglie da cui risulta la propensione della gente a volgersi ad un welfare privato nel settore dell’istruzione, della cultura, della sanità, che segna da un lato la crisi del welfareformale garantito dallo Stato (“dalla culla alla bara”) e dall’altro la ricerca di una mi- gliore qualità della vita, resa possibile dal meccanismo di patrimonializzazione.

E tuttavia tale prospettiva non pare arridere al lavoro dipendente salariale, stipendiale, stretto tra “la crisi del mondo giocato sugli stipendi e la crisi del mondo giocato sul welfare pubblico” se, come afferma De Rita, gli esiti ancora non si intravedono e saranno frutto di processi sociali lentissimi.

In aperta polemica con i sindacati e con la sinistra italiana, De Rita sottolinea la debolezza di una politica centrata sulla difesa del welfare tradizionale, ancora permeata da una logica prigioniera del passato, e (forse?) incapace di cogliere le prospettive implicite nei processi sociali emergenti – la patrimonializzazione e la gestione con tutti i mezzi di una qualità della vita più avanzata – processi che il Rapporto ha messo in evidenza.

Processi, come si è detto, lentissimi e che, pur trascurati da un’opinione pubblica attratta assai più dalla notizia, dall’evento, come sommatoria di microcomportamenti alla lunga determinano quella che De Rita acutamente definisce una “torsione della storia”.

De Rita affronta pure problematiche di significativa attualità fortemente connesse alla cultura collettiva.

Così la perdita della concezione del tempo, come sonno della memoria e abbandono della riflessione (in senso kierkegardiano) sulla ricerca dei valori (morali, religiosi?) che precedono e fondano l’ambito delle decisioni, è osservata nei processi di formazione del giudizio giuridico, scientifico e politico di cui, con forza, De Rita denuncia l’autoreferenzialità.

Così il ritorno della violenza in forma di fondamentalismo religioso è visto come l’irrompere nell’umano del sacro degradato e offre l’occasione per la critica del soggettivismo etico che sottrae alla dimensione del sacro la sua universalità, la connotazione arcana e storica del sacrificio che, secondo De Rita, noi abbiamo perso totalmente.

Quanto alle prospettive future: l’Italia vista così come si è costituita negli ultimi cinquanta anni, dove le unità locali dell’industria sono più che raddoppiate nel volgere di venti anni, è assai meno il risultato delle politiche programmatorie di quanto lo sia grazie a processi suscitati dal basso, definiti con la metafora dei “fili d’erba” (le piccole e piccolissime imprese) che continuano a crescere e a contrastare la decadenza vitale che spesso le società più anziane soffrono.

È questa la speranza.

Augusto Benvenuto
Direttore responsabile della Collana Quaderni della Fondazione A.J. Zaninoni

Altro...

Una società squilibrata. È questa la fotografia della società italiana alla fine del 2004, tracciata da Giuseppe De Rita nel presentare il Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese.

A partire dalla confutazione dello slogan “stiamo tutti impoverendo”, con cui parte della stampa nazionale ha sintetizzato il tema del Rapporto del 2003 che affermava “non stiamo impoverendo, però c’è una grande paura di impoverire”, De Rita è interessato a spiegare il rapporto tra impoverimento come dato quantitativo oggettivo e la percezione dell’ansia, della paura di impoverire sotto il profilo psicologico, indicando le condizioni che ne determinano soggettivamente il vissuto.

Una società che appare fortemente polarizzata tra chi “non ce la fa ad arri- vare al 27 del mese” e chi si può permettere di “passare il Natale a New York”, è dunque una società pesantemente squilibrata. Una società che, ancorché abbia assorbito lo spropositato aumento dei prezzi che ha accompagnato l’introduzione dell’euro – fatto unico in Europa –, è attraversata da significativi processi: l’aumento impressionante del lavoro sommerso (dai 3-4 milioni di lavoratori sommersi del 1971 ai circa 7 milioni di oggi) e l’aumento diffuso dell’evasione fiscale che ormai si attesta al 46% di reddito non dichiarato.

La conseguente enorme disponibilità di denaro contante si volge così al mercato immobiliare, soprattutto verso il bene “casa” (2 milioni di case vendute negli ultimi 2 anni), ma anche verso il mercato mobiliare, dove investimenti dell’ordine di 30mila miliardi hanno garantito rendimenti medi del 5% (fonte Banca d’Italia).

Ed è proprio questo rilevante processo di patrimonializzazione, afferma De Rita, il fattore squilibrante perché radicalizza le forti disomogeneità tra una società che vive sulla ricchezza patrimoniale e quella che vive sull’aumento dei redditi degli stipendi con il corollario che “lo stipendio non conta più come meccanismo di accrescimento del reddito”.

È dunque la categoria dei percettori di reddito fisso, il cosiddetto ceto medio, che non ha ad alcun titolo altre entrate, quella che, ancorché non sia sostanzialmente povera, ha tuttavia la sensazione della povertà, la paura di non farcela alla fine del mese.

Rispetto a questa inoppugnabile realtà (l’impoverimento reale o percepito), il dato riferito al Mezzogiorno, dove si comprano 300-400 mila case all’anno in contanti, si pone in evidente contrasto e sembra contraddire la logica dell’impoverimento. Se poi circa 1 milione di persone dichiara di vivere senza lavorare c’è allora il sospetto che siano tutt’altro che povere. Dunque la tesi dell’impoverimento è, secondo De Rita, una falsificazione della realtà. Tuttavia rimane il convincimento che il processo di patrimonializzazione segni un passaggio negativo di qualità della società italiana e, riferendosi alla metafora dei diversi talenti posseduti, De Rita conclude amaramente che se nella società a vincere è il patrimonio e non il reddito, vince la cultura del rampier e non la cultura del lavoratore.

Il quadro di riferimento si allarga alla critica del welfare e alla sua inadeguatezza a soddisfare una domanda nuova che De Rita, con qualche puntigliosità, considera liberata dalla connotazione di bisogno/desiderio che le conferiva il freudo-marxismo.

Tale critica è suggerita dall’analisi statistica della spesa delle famiglie da cui risulta la propensione della gente a volgersi ad un welfare privato nel settore dell’istruzione, della cultura, della sanità, che segna da un lato la crisi del welfareformale garantito dallo Stato (“dalla culla alla bara”) e dall’altro la ricerca di una mi- gliore qualità della vita, resa possibile dal meccanismo di patrimonializzazione.

E tuttavia tale prospettiva non pare arridere al lavoro dipendente salariale, stipendiale, stretto tra “la crisi del mondo giocato sugli stipendi e la crisi del mondo giocato sul welfare pubblico” se, come afferma De Rita, gli esiti ancora non si intravedono e saranno frutto di processi sociali lentissimi.

In aperta polemica con i sindacati e con la sinistra italiana, De Rita sottolinea la debolezza di una politica centrata sulla difesa del welfare tradizionale, ancora permeata da una logica prigioniera del passato, e (forse?) incapace di cogliere le prospettive implicite nei processi sociali emergenti – la patrimonializzazione e la gestione con tutti i mezzi di una qualità della vita più avanzata – processi che il Rapporto ha messo in evidenza.

Processi, come si è detto, lentissimi e che, pur trascurati da un’opinione pubblica attratta assai più dalla notizia, dall’evento, come sommatoria di microcomportamenti alla lunga determinano quella che De Rita acutamente definisce una “torsione della storia”.

De Rita affronta pure problematiche di significativa attualità fortemente connesse alla cultura collettiva.

Così la perdita della concezione del tempo, come sonno della memoria e abbandono della riflessione (in senso kierkegardiano) sulla ricerca dei valori (morali, religiosi?) che precedono e fondano l’ambito delle decisioni, è osservata nei processi di formazione del giudizio giuridico, scientifico e politico di cui, con forza, De Rita denuncia l’autoreferenzialità.

Così il ritorno della violenza in forma di fondamentalismo religioso è visto come l’irrompere nell’umano del sacro degradato e offre l’occasione per la critica del soggettivismo etico che sottrae alla dimensione del sacro la sua universalità, la connotazione arcana e storica del sacrificio che, secondo De Rita, noi abbiamo perso totalmente.

Quanto alle prospettive future: l’Italia vista così come si è costituita negli ultimi cinquanta anni, dove le unità locali dell’industria sono più che raddoppiate nel volgere di venti anni, è assai meno il risultato delle politiche programmatorie di quanto lo sia grazie a processi suscitati dal basso, definiti con la metafora dei “fili d’erba” (le piccole e piccolissime imprese) che continuano a crescere e a contrastare la decadenza vitale che spesso le società più anziane soffrono.

È questa la speranza.

Augusto Benvenuto
Direttore responsabile della Collana Quaderni della Fondazione A.J. Zaninoni

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