Donald Sassoon, storico pratico che non ha paura di utilizzare gli strumenti di analisi dei fenomeni di massa, è tornato a Bergamo su invito della Fondazione Zaninoni per parlare del suo libro La cultura degli europei. Un libro fluviale (1600 pagine) che analizza la cultura come mercato di consumo restituendo al coraggioso lettore una massa di informazioni ma anche strumenti per comprendere 200 anni di backstage dell’industria editoriale, mediatica e dell’intrattenimento. Come ha detto l’autore “Si possono saltare capitoli, leggiucchiare qua e là. Non è un libro di estetica, non fa la lista dei libri da leggere, dei film da vedere, dei programmi televisivi, dei programmi radiofonici di qualità. E non è neppure un libro su quello che gli europei hanno prodotto di cultura, ma soprattutto su quello che consumano”.
La tecnologia, da questo punto di vista, è fondamentale perché è la tecnologia che ci ha reso possibile diffondere, vendere e comperare cultura. Come si accedeva alla cultura nel XIX secolo? C’erano il libro (caro), il giornale, lo spartito musicale e se si poteva andare a un concerto o a una rappresentazione era solo per una volta, per quella, epica, volta. Sono il maggior benessere e la concentrazione di persone nelle città che rendono possibile il passaggio della cultura da privilegio aristocratico a merce acquistabile, se non da tutti, da molti.
Walter Scott come Dan Brown: edizioni tradotte in francese e altre lingue, il romanzo storico imitato come il reality, dai suoi romanzoni furono tratti 92 libretti d’opera, come dire 92 film holliwoodiani, Alessandro Manzoni descritto dai contemporanei come il “Walter Scott italiano”. Ebbene, nel 1815 un libro di Walter Scott costava 1 sterlina e mezzo. Un artigiano scozzese guadagnava 15 scellini la settimana cioè 3/4 di sterlina. Un domestico guadagnava 10 sterline l’anno. Il rimedio per il povero lettore erano le biblioteche ad abbonamento, i libri ridotti a pezzi (e poi scambiati) per spendere meno. Visto dalla parte dell’editore, bei libroni di centinaia di pagine, un colpo di scena per capitolo esattamente come nei serial, per tenere agganciato il lettore. Oppure una storia che si apre dentro un’altra a scatola cinese, a matrioska, qualunque cosa pur di ottenere un lettore pagante in più. Come si vede, alla luce dell’analisi sassooniana, i 25 lettori del Manzoni non sono finta umiltà ma lombarda, concretissima consapevolezza delle limitate potenzialità del mercato.
Nihil novum, anche se lo share era ancora lontano. Ma c’erano i giornali. Costosi, maldistribuiti. Finché non arriva l’idea di usarli come veicolo per far incontrare domanda e offerta. Arriva la pubblicità che paga per tutti e il prezzo per il lettore scende. Più tardi la pubblicità terrà in piedi, almeno nei Paesi con vaste distese e vaste cittadinanze, radio e televisione. Che, con quel che costano in tecnologie e competenze professionali, senza pubblicità sono condannate al bilancio in rosso perpetuo (a meno che chi le possiede non scenda in campo, ma questa è un’altra storia. Che, peraltro, sarebbe interessante sentire riletta da Sassoon). Comunque, la storia della cultura e la storia del capitalismo sono intrecciate.
Quel che vale per le parole, vale per la musica. L’Italia esporta Opera: nel 1850 da noi c’erano 150 teatri lirici, in tutta la Gran Bretagna 10, in Francia 70. L’opera è made in Italy, tutti la vogliono. Le Walchirie di Wagner in Inghilterra parlano italiano, se no non ci andava nessuno. Rossini, Donizetti, Bellini, Verdi, Puccini globalizzano i format: si parte con un’opera ambientata in Italia, La battaglia di Legnano, tanto per essere sulla notizia, e poi via con La fanciulla del West. La musica di Verdi va in America Latina, a Cuba, negli Stati Uniti.
Ma la rivoluzione dei sistemi di distribuzione arriva tra il 1880 e il 1910-20, con il fonografo e i dischi. Per la prima volta nella storia dell’umanità per ascoltare un pezzo di musica non è più necessario andare al concerto, comprarsi il piano, costringere qualcuno a suonarlo: si compra un hardware detto fonografo e un software detto disco e via. Si inventa la miniera d’oro del diritto d’autore, Caruso ci guadagna 2 milioni di sterline, lui che non voleva incidere, temendo che il pubblico non sarebbe più andato ai concerti! Nihil novum, vedi la guerra carta stampata-tv-internet.
Quando arriva il cinema, i giornali lo snobbano. In realtà il limite è tecnologico: film di un minuto per via della bobina corta. Quando si arriva a dieci minuti il gioco è fatto, una storia ci sta. Ma fare il cinema costa, occorrono molti più capitali che a stampare un libro. Bisogna azzeccare il soggetto, la faccia dell’attore/attrice, un sacco di gente deve vedere un film per poterci guadagnare sopra. Quindi bisogna inventare il rinforzo del divismo, pescare qualcosa di vecchio qualcosa di nuovo qualcosa in prestito e forse di blu e riassemblare il tutto nel film. Uguale in tutto il mondo. E poi la radio, che aveva lo stesso problema di internet (troppo gratis) e la stessa soluzione: la pubblicità che paga l’ascolto gratuito, il download gratuito.
Ecco, il professor Sassoon ragiona così: gratta la liscia vernice della cultura e sotto ci troverai di tutto. Soldi, voglia di divertirsi, sogni, moda, idee, concorrenza, necessità, ma soprattutto tanta tecnologia. La cultura è condizionata dalla tecnologia. Anzi: compenetra la tecnologia, che compenetra la percezione, che compenetra il mercato. O ce ne facciamo una ragione, o è meglio che non tentiamo neppure di analizzare la contemporaneità.
Il metodo Sassoon seppellisce per sempre l’intellettuale postbellico, compreso della propria snobistica, elitaria cultura, che pretende di insegnare al mondo a vivere. Un sollievo.
Susanna Pesenti
giornalista de L’Eco di Bergamo